Un
vecchio muro di cinta, un portone e un cancello malmesso che separano
il continuo viavai di poliziotti armati e imbronciati dal formicolio
vociante dei detenuti oltre le sbarre: facce distrutte, coperte di
tagli, cicatrici infette, gonfie dall’alcol e dalla droga, segni di
malattie epidermiche ovunque, bocche disastrate, sorrisi sdentati, a
tratti divertiti, ma più spesso tristi, rassegnati…mani coperte di
ferite, sporche, secolarmente unte…unghie fossili, piedi scalzi,
alluci all’avanscoperta da scarpe fuori moda, distrutte da anni.
2500 anime rinchiuse in un “purgatorio terrestre”, accompagnate
dai più o meno 400 bambini, che seguono i loro padri in questa
difficile esperienza, loro malgrado. Carcere San Pedro di La Paz,
Bolivia: un carcere spesso sotto i riflettori della stampa e della
TV, negli ultimi anni, soprattutto per via del suo sovraffollamento
(era stato costruito per ospitare non più di 500 detenuti) e le
condizioni disastrose della struttura che portano ad evidenti e gravi
problemi di ordine igienico/sanitario e psicologico per i detenuti e
i loro figli che si trovano a dover vivere, spesso per parecchi anni,
in condizioni veramente al di là di un’umana sopportabilità.
Il
paradosso di questo carcere e’ che, una volta entrato, il detenuto
non e’ controllato da nessuno e, specularmente, non viene nemmeno
tutelato in caso di aggressione, violenza o abuso: i detenuti stanno
dentro le mura, la polizia carceraria sta fuori. Le giornate non sono
scandite da orari, attività o da un rigido regolamento che i
detenuti sono tenuti a seguire. Tutto ciò che succede all’interno
del carcere soggiace al “regolamento interno” dei detenuti, che
si organizzano in maniera del tutto autonoma, eleggendo alcuni
delegati che stabiliscono norme e regole di vita e convivenza da
seguire all’interno di quelle 4 mura.
Per
chi si affida ai parametri dell’iconografia e l’immaginario
cinematografico della struttura rigidamente chiusa e altamente
sorvegliata, di impronta per così dire “occidentale”, il San
Pedro è sicuramente un carcere “molto particolare”. Di certo non
lo è se si considerano gli standard latinoamericani, dove è
assolutamente normale una organizzazione “polizia fuori-detenuti
dentro” delle strutture detentive e dove in certi casi, ce la si
passa meglio dentro un carcere, con almeno il rancio assicurato, che
su una strada a morire di fame e stenti.
Un’altra
ironica particolarità di questa istituzione carceraria, e’ che le
celle per i detenuti sono a pagamento. I detenuti che arrivano al
carcere devono pagare un mensile per poter alloggiare all’interno
di una cella, oppure “comprarla”, pagando una cifra forfait, ai
proprietari delle celle (altri detenuti che nel tempo si sono
comprati una, due, tre celle, con l’aiuto dei familiari o di vari
traffici illegali). Risulta evidente come una differente situazione
socio-economica rappresenti una forte discriminante, fondamentale per
la qualità stessa della permanenza in carcere: chi infatti possiede
molta disponibilità di denaro (solitamente individui appartenenti a
gruppi della malavita organizzata, grossi narcotrafficanti, a volte
detenuti stranieri, ecc.) o una famiglia che può farsi carico di
questa spesa, può permettersi un tetto sotto cui dormire, chi al
contrario si trova in una condizione economica critica (persone
abbandonate dalla famiglia, ragazzi di strada, ecc.) si deve adattare
a dormire all’aperto sotto tettoie o balconi. In generale, però,
non manca collaborazione e aiuto reciproco fra i detenuti, in
particolare quelli che si trovano nelle condizioni economiche più
penose: spesso proprio i più poveri condividono la stanza con chi
non ha la possibilità di pagarsi il posto letto, dividono con loro
il pasto, il vestiario o le cose di cui necessitano.
All’interno
delle sue gigantesche mura, il San Pedro, e’ strutturato come un
piccolo villaggio, con al suo interno viuzze, accenni di portici,
piccole piazzette circondate da costruzioni di due o tre piani (le
celle). Insomma un vero e proprio “piccolo centro urbano” dove e’
possibile trovare piccole rivendite di generi alimentari, bancarelle
varie e botteghe di calzolai, idraulici, fabbri, carpentieri,
fotografi, idraulici, arrangiate all’interno delle celle, dove chi
ha un po’ di ingegno e voglia di lavorare può organizzare una
attività in proprio e guadagnare qualche soldo per tirare avanti un
po’ meglio. C’è una sala da biliardo, una falegnameria che
produce mobili che vengono venduti all’esterno a privati o anche ad
alcuni uffici. Il brulicare, dentro al San Pedro è continuo: c’e’
chi vende il proprio artigianato, chi arrangia tavolini e sedie fuori
dalla propria cella per servire caffè o frullati. C’è anche chi
corre avanti indietro tra il cancello d’ingresso e i meandri più
nascosti del carcere, per andare a chiamare i detenuti che ricevono
visite dai parenti: si fanno chiamare “taxi”, proprio perché ti
portano chi vuoi direttamente al cancello, dove tu ti fermi ad
aspettare.
Il flusso di
ingresso di droga e alcol è regolato da mazzette elargite alla
polizia penitenziaria, che chiude gli occhi e le orecchie di fronte
ad un sostanzioso arrotondamento dello stipendio in contanti.
Una pratica
diffusa per molti anni (e che facilmente ci fa intuire lo scarso
controllo e soprattutto il grado di corruzione in cui versa il corpo
di polizia penitenziaria), è quella delle “visite guidate”
all’interno del carcere (il cosiddetto “San Pedro tour”) da
parte di turisti stranieri, che pagano un “ingresso” (arrivato a
circa 35 USD). La evidente immoralità di questa pratica sia da parte
dei turisti (che visitano il carcere come un luogo di particolare
interesse, come fosse uno zoo, noncuranti del vissuto di profondo
disagio dalle persone che vi sono rinchiuse) sia da parte della
polizia carceraria (che dimostra evidentemente la sua profonda
corruzione), hanno portato i Direttori un po’ più civili ad
ordinare il divieto assoluto di tali “visite turistiche”, ma ad
ogni cambio del Direttore (e del suo grado di corruzione), c’è
sempre il rischio che queste “visite guidate” ritornino in voga.
L’ambito
sanitario è assolutamente trascurato: per 2500 detenuti c’è un
medico in servizio solo alla mattina e una infermeria con qualche
rete arrugginita e qualche materasso pulcioso piazzato sopra, in una
totale, drammatica assenza di igiene. Spesso, sono alcuni detenuti ad
accudire i loro compagni, offrendosi volontari per affiancare il
medico ed aiutandolo nella somministrazione dei farmaci agli
ammalati. Anche il basilare diritto alla salute è regolato dalle
condizioni economiche del detenuto: chi ha soldi può permettersi
visite e cure a pagamento, chi non ha nulla, può solo pregare di non
avere nulla di grave.
Molti
detenuti hanno perso il legame con la famiglia e con le loro
compagne. Nella maggioranza dei casi, di fronte all’incarcerazione
del marito (sinonimo spesso di gravi difficoltà di sostentamento),
le compagne emigrano in altre città in cerca di lavoro e/o di
migliori condizioni di vita. Sono proprio molti di questi detenuti
che si trovano a dover accudire ai loro figli portandoli con sé in
carcere, perché spesso, l’abbandono da parte della ex moglie non
riguarda solo il partner, ma si estende anche alla prole, per
l’impossibilità di farsi carico del loro sostentamento.
I
figli dei detenuti che si trovano a condividere l’esperienza del
carcere con i loro padri, sono circa 400, con un’età compresa fra
i 0 e i 15 anni. E’ importante però contestualizzare culturalmente
questa realtà. Ricordiamoci infatti che la presenza di bambini
all’interno del carcere, è un aspetto molto diffuso in tutta
l’America Latina, proprio per l’estrema povertà non solo delle
famiglie dei detenuti, anche del sistema socio-sanitario statale che
non riesce a farsi carico dei bambini con uno o entrambi i genitori
in prigione. L’alternativa per questi bambini sarebbe l’inserimento
in istituto e la separazione dal genitore fino alla maggiore età: ma
cosa ci fa pensare che questa soluzione, che implica la rottura
dell’unico legame affettivo significativo per questi bambini, sia
quella migliore?
Può
infatti sembrare assurdo, ma la presenza dei bambini dall’interno
del carcere permette lo svilupparsi di dinamiche positive:
-
innanzitutto spesso sono proprio i bambini che fanno in modo di
mantenere i legami con la famiglia all’esterno, contribuendo ad un
possibile ricongiungimento del detenuto con la compagna o con il
nucleo familiare;
-
i bambini rappresentano uno stimolo per i loro padri, che devono
attivarsi nella ricerca di un lavoro all’interno della struttura
carceraria, per poter dare ai figli qualcosa da mangiare e dei
vestiti;
-
i bambini “umanizzano” il carcere. Rendono il carcere più umano,
perché la loro presenza stimola un atteggiamento di cura e di
attenzione verso “il più debole”, che fa dei detenuti non solo
dei “criminali” ma degli esseri umani che riscoprono la loro
paternità e la mettono in pratica.
Sicuramente
la problematica è molto articolata e necessita di un’altrettanto
articolato programma di intervento socio-politico per la sua
risoluzione. Negli ultimi anni l’attuale governo Morales si sta
muovendo per la definizione di un piano di intervento per il sostegno
a questa particolare popolazione infantile, ma si sa, i tempi per il
raggiungimento di un qualsivoglia risultato, sono molto lunghi.
A
partire dal settembre del 2002, sta funzionando un Centro Educativo
per bambini all’interno del carcere (il “Kinder”, così viene
chiamato dai bambini e dai detenuti), costruito grazie a Padre
Filippo Clementi (l’allora Cappellano delle 4 carceri di La Paz), e
la collaborazione della volontaria Barbara Magalotti, che da allora
continua a coordinare le attività del Centro Educativo e a
sensibilizzare la comunità locale e le istituzioni boliviane sulla
particolare condizione vissuta dai figli dei detenuti. Aprire questo
centro di attività ludiche e di laboratorio per i bambini che vivono
dentro al San Pedro è stato un grande passo, per poter dare un
indirizzo educativo a questi bambini ed è anche stato uno dei primi
esempi in Bolivia di una cura educativa indirizzata verso la
popolazione infantile residente all’interno di un carcere. Presso
il Kinder vengono proposte attività ludiche e di laboratorio,
sostegno scolastico, dinamiche di gruppo, uscite collettive in
particolari occasioni, spettacoli per bambini ed inoltre viene
distribuita quotidianamente una sostanziosa merenda, visto che i
bambini, come i loro padri, hanno diritto ad un solo pasto al giorno.
Oltre all’importanza sul piano educativo che il Centro sicuramente
riveste, la presenza costante degli educatori e dei volontari
rappresenta per i bambini un momento di incontro e di interazione
sereno e diverso dalla routine carceraria alla quale sono abituati.
E’ innanzitutto una presenza che da’ loro calore umano e quella
vicinanza emotiva che li fa sentire accettati, amati, oggetto di
quell’attenzione affettuosa alla quale hanno diritto.
Questo
progetto continua ad esistere grazie all’Associazione di
Volontariato “Laboratorio Solidale”, che finanzia in toto il
progetto “Centro Educativo Alegrìa”: lo stipendio degli
educatori per il Kinder, i materiali didattici, l’acquisto del
cibo, il mantenimento dei locali, le cure sanitarie e a volte, quando
i fondi lo permettono, anche le cure dentistiche per i bambini che
presentano particolari problemi odontoiatrici.
Nonostante
il grado di controllo e la gestione delle dinamiche all’interno del
carcere da parte della polizia, siano praticamente inesistenti e
l’organizzazione penitenziaria stessa renda praticamente
impossibile un corretto, equo ed umano trattamento penitenziario (per
la totale assenza di un programma di recupero psico-sociale e
sanitario), nonostante l’imponenza della corruzione della polizia
penitenziaria e il perpetrarsi all’interno del carcere del riflesso
delle ingiustizie sociali ed economiche presenti all’esterno (chi è
più ricco e ha più potere vive meglio e soprattutto più a lungo),
la particolare condizione di “autonomia” che caratterizza questo
carcere può portare con se’ degli aspetti che umanamente possiamo
considerare positivi. Prima di tutto una minor pressione psicologica,
un minor senso di oppressione, vista l’assenza della polizia
all’interno delle mura e in secondo luogo la possibilità di
ricevere visite praticamente 24 ore su 24 da parenti e amici. Queste
condizioni rappresentano per molti una opportunità di vivere un po’
meglio l’esperienza della detenzione, di sopportare con meno
angoscia l’attesa del giudizio, che molto spesso arriva dopo anni
di reclusione, in una totale assenza di sostegno o interessamento da
parte degli avvocati (la maggior parte d’ufficio) e totalmente
dimenticati dal sistema giudiziario.
Ci
sono poi i detenuti completamente soli e abbandonati, tutti coloro
che non avendo più una rete familiare e degli amici, annegano la
loro tristezza nell’alcol, nella droga, nella follia della violenza
o in un disperato, silenzioso isolamento…e aspettano. Aspettano la
fine del loro “tunnel” detentivo, senza crederci ormai più, con
un’ansia mista alla paura di non farcela: non farcela dentro e non
farcela una volta fuori dal carcere. Aspettano che qualcosa cambi,
che qualcuno si accorga di loro e con un sorriso sincero gli tenda
una mano e li chiami col loro nome, un nome che fanno fatica a
ricordare. E’ soprattutto per questi ultimi che i volontari
dell’Associazione Laboratorio Solidale stanno progettando la
realizzazione di “Casa Solidaria”, una struttura per
l’accoglienza e l’accompagnamento post-penitenziario dei detenuti
in uscita dal carcere di La Paz dopo lunghi anni di detenzione, per
aiutarli nel loro percorso di reinserimento sociale e lavorativo, per
aiutarli ad accendere una piccola luce di speranza nella propria
vita.
Per
contatti ed informazioni sui progetti “Centro Educativo Alegrìa”
e “Casa Solidaria”:
FB
Laboratorio Solidale Associazione di Volontariato
Barbara
Magalotti Cell. +39 320 8620194
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