21 novembre 2010

Karma

Si avvicina un uomo magro e basso, capelli scuri e lunghi, occhi neri e profondi, leggermente a mandorla, tibetano, uno dei 100 mila rifugiati in India dopo l'occupazione del Tibet da parte della Cina nel 1950. Si chiama Karma.
Ci consegna un volantino - Per un concerto domenica - Non ci saremo, partiamo. Non importa, lui vuole solo parlare. Ora riesce a farlo, dopo mezza bottiglia di rum.
Ha 46 anni, una figlia di 24 anni, due figli di 28 anni. Per questo gli piace parlare con noi, gli ricordiamo i suoi figli. Sembra piu' giovane, se non fosse per quello sguardo colmo di storia, troppa storia. Sguardo saturo di ricordi, di uno che ha vissuto gia' abbastanza: e' scappato dal Tibet all'eta' di 16 anni, dopo che tutti i suoi parenti erano stati messi in prigione per essere stati trovati con una foto del Dalai Lama in casa.
Ha due sogni: diventare un cantante famoso e aiutare i suoi parenti. - Chissa' se sono ancora vivi. E' piu' probabile che diventi un cantante famoso - dice, con un sorriso un po' forzato, cercando di addolcire l'amaro. Parliamo della sua fuga e dell'occupazione cinese, ma alla fine di ogni discorso succede sempre la stessa cosa: Karma alza le spalle ed emette la sentenza: "la Cina è troppo forte".

Arriva il momento dei consigli, in fin dei conti siamo suoi figli e fratelli.
"Attenti ai falsi amici, che saranno gelosi dei vostri soldi. Attenti a non bere come me, voi avete una famiglia e sapete dov'e'. Se di notte scorgete una tigre, nel bosco, non abbiate paura; comportatevi con compassione, pensate Povera tigre, forse hai fame. Vieni, mangiami, oh tigre, perche' io possa farti stare meglio. La tigre sentira'questa compassione, percio' se ne andra' ". Consiglio profondo ma profondamente vano: invano è fuggio dalla tigre, la sua paura è ancora palpabile.

Grande Karma, commovente Karma, ironico ed amaro Karma, troppo facile giocare col suo nome. In lui si celano centinaia di migliaia di tibetani, tutti con quegli occhi, sguardi, parole e sorrisi di chi e' consapevole di esser stato costretto ad abbandonare le proprie radici. L'unica alternativa era bruciarle, ma solo pochi disperati monaci devoti ci riescono.
La tigre cinese non ha desiderio di pace, anzi, sta divorando la compassione di 4 milioni di persone che continuano a chiedere, attraverso il loro portavoce spirituale e politico, il Dalai Lama, di sopravvivere come cultura e come tibetani. Ma ciò non è possibile, almeno non in Tibet, dove il governo cinese obbliga a imparare unicamente la storia cinese, la lingua cinese, il business cinese, il socialismo cinese... dove i templi distrutti superano in numero quelli intatti... dove i falsi idoli ed i panchen lama sostituiscono il Dalai... dove le sterilizzazioni di massa impediscono ai tibetani di riprodursi.

E' a Dharamshala e in tanti altri paesi indiani dove la fenice tibetana, privata delle sue ali, sta rinascendo dalle ceneri che il vento dell'est, spirando da 5000 metri, ha trasportato a sud dell'Himalaya. Cacciato dal tetto del mondo, ogni tibetano ricomincia dalla strada, bussando, ogni giorno con umilta' e costanza, alle porte dell'animo dei passanti, dei viaggiatori e di chiunque sia lì ad ascoltarli.

Il Tibet non e' morto. Le ceneri di Lhasa stanno fertilizzando tanti altri piccoli campi.

Dharamshala, aprile 2010.

Bandiera del Tibet, bandita dal governo cinese.

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